La liturgia della parola odierna ruota attorno alla stessa domanda (qui inespressa) che concludeva il brano del Vangelo di domenica scorsa: “Chi è costui?”, “Chi è Gesù?”. Lì avevamo lo conosciuto come colui che non ci abbandona nel momento della difficoltà (vento, onde, tempesta….), che si fa nostro “compagno di viaggio” lungo le difficili tappe della vita. Oggi, alla stessa domanda – ma posta in situazioni ancora più drammatiche (una donna stremata dalla malattia; un padre cui muore la figlioletta) – il Vangelo risponde che Gesù è colui che dona la vita. Ne fanno esperienza coloro che si fidano pienamente di lui, come la donna malata (“Figlia, la tua fede ti ha salvata”) e il capo della sinagoga (“Non temere, continua solo ad avere la fede”).
E’ l’impatto con le difficoltà quotidiane che, spesso, fa sorgere in noi gli interrogativi più profondi e pregnanti. Soprattutto quando ci capita di attraversare l’oscuro “tunnel” del dolore: sofferenza, malattia, morte. Nonostante ogni nostro sforzo contrario, infatti, questi passaggi finiscono in qualche modo per incrociare le nostre vite, sfidandoci a trovare un senso, una risposta, una speranza. E quando, di fronte ad essi, l’uomo si apre alla possibilità della fede, arriva il momento in cui egli “mette con le spalle al muro” anche Dio, per avere una risposta chiara: da che parte stai Signore? dalla parte della vita o della morte?
Già il Libro della Sapienza aveva chiarito le intenzioni del Creatore: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi”, e ancora: “Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura”. Egli è il Dio della vita, non della morte!
Nel Vangelo, Gesù traduce in gesti concreti questo desiderio di Dio, facendone fare esperienza a quanti hanno piena fiducia in lui. La guarigione dalla malattia, il riportare in vita la figlioletta di Giairo, sono “segni” chiari della signoria di Gesù sulla vita, della volontà originaria di Dio che ha creato l’uomo per la vita.
Di fronte al grido di chi soffre, Gesù non da risposte sulle origini del dolore e della morte, ma con i fatti mostra che è lui ad avere l’ultima parola su di essi. I suoi miracoli sono “segni”, perché non si fermano al beneficio fisico (guarigione, rianimazione) ma rimandano ad altro, alla salvezza eterna. Segni “efficaci” per tutti, anche per chi non li ha ricevuti su di sé (infatti Gesù non ha guarito tutti i malati che ha incontrato, non ha rianimato tutti i morti del suo tempo), perché permettono a ciascuno di noi, nel momento della prova, di fidarci di Dio, nella consapevolezza che la nostra vita è nelle sue mani, che siamo destinati alla vita eterna, che Egli ha vinto la morte per sempre. Così che anche noi possiamo esclamare con S. Ireneo: “La gloria di Dio è l’uomo vivente”.