Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”
Quanto la parola “popolo” sia esposta a mistificazione e a strumentalizzazione, lo conferma l’uso elusivo ed ambiguo che è toccato, e ancora tocca, a una delle locuzioni latine più note: vox populi, vox Dei. Espressione della concezione medievale della sovranità popolare, la si trova per la prima volta (789) in Alcuino di York (Capitulare admonitionis ad Carolum IX). Ma, già nelle Controversiae (1,1) di Seneca padre, si legge: «Sacra populi lingua est».
Non è solo la letteratura posteriore – ad esempio, La Fontaine («Le peuple est juge récusable…») e il Manzoni dei Promessi sposi (38,41) – a mettere in luce il carattere problematico che accompagna la parola “popolo” e le alterne vicende che ne definiscono la realtà. A soli pochi decenni da quando vede nel popolo la comunità che, col Senato, è in grado di assicurare vita e prosperità alla esperienza repubblicana (De republica 1,39), Cicerone si dice angosciato dal pensiero di un popolo «spogliato e privato di ogni voce erudita e degna di essere ascoltata da orecchie romane o greche» (Brutus 6).
Niente di nuovo sotto il sole! Quando si è costretti a sentire ancora oggi alcuni che, in nome di non si sa quale concezione di popolo, pretendono di giustificare banalità, se non vere e proprie storture, in assenza di ogni logica. Sfidando e invitando “a candidarsi”, cioè a sottoporsi al giudizio del popolo. Come se la capacità di raccogliere voti tra la gente renda di per sé saggio un parolaio, o statista un demagogo.
A sostenere tali comportamenti c’è la non problematizzata convinzione che, sempre e comunque, vox populi, vox Dei. Capace anche di aprire la strada a una sorta di delirio di onnipotenza che, in fondo, si basa sull’idea che sia il numero a decretare la verità di un’affermazione o a sancire la credibilità di una persona e dei suoi comportamenti.
È la degenerazione del significato della parola popolo. Questa, debitrice della radice indoeuropea par-o pal-, contiene infatti, in sé, il concetto di riunire, mettere insieme. Come avviene nella parola greca πλῆθος (plethos, folla), che rimanda a individui riuniti insieme da territorio, lingua, leggi, religione, tradizioni, usi, costumi, aspirazioni, ecc.
Rispettare il popolo significa dar credito ai suoi bisogni e non considerarlo come un insieme di nullità al quale poter propinare parole senza senso e promesse senza domani. Sfruttandone specularmente le difficoltà e la rabbia. Facendogli credere che è unico sovrano e che non deve avere nessun limite né contropotere. Se non quello di chi è capace di interpretare in maniera rapida il sentire comune, indirizzandolo verso prospettive tanto allettanti quanto irrealizzabili.