Maldicenza

Rubrica de Il Sole 24ore “Abitare le parole”

A poche parole, dal sapore evidentemente negativo come «maldicenza», è toccato vedersi dedicare La scuola della maldicenza (intricata commedia di R.B. Sheridan) e L’albero della maldicenza (film del 1979). Addirittura, in una città del centro-Italia, la maldicenza viene celebrata, sotto il nome di «maldicenza agnesina»: strana forma di virtù civica che si tramanda, di cui vantarsi, e che si manifesta di fatto come critica franca, mordace e mai maligna.
Tra questo significato, per certi versi accondiscendente, e il giudizio nettamente negativo che circonda la maldicenza – ben descritto nell’Allegoria della maldicenza di G. Bellini – vi è la concezione che ne hanno avuto gli antichi Greci. Per loro la maldicenza è quel particolare risentimento (ftonos) che, non essendo «un autoavvelenamento dell’anima» come per M. Scheler, si trasforma in ribellione. Espressa con parole dalle quali traspare ingiuria, calunnia e insulto verso i potenti e, talvolta, verso gli stessi dèi.
Con uno sguardo più attento, a cominciare da Aristotele fino a Nietzsche, passando per Tocqueville e Schopenahuer, ci si è soffermati sulle motivazioni che sono alla base della maldicenza. Alla base cioè di uno strumento di (in)comunicazione capace di trasformarsi da piccola e insignificante arma a proiettile ad alto potenziale.
Essa dice molto della personalità del maldicente. Parla del sentimento di invidia che l’anima e dell’incapacità di pensare positivo. Ed è proprio questo che contribuisce a fare della maldicenza un vero e proprio strumento di potere e di controllo, che logora. Tanto più è vero, quanto più pertinenti sono le parole con le quali l’oratore e senatore romano Tacito introduce le sue Historiae: «Obtrectatio et livor pronis auribus accipiuntur» (La maldicenza e il livore vengono accolti con orecchi disponibili: I, 1-2). Creando una sorta di complicità negativa.
Da custodi e amministratori del tesoro della reputazione propria e altrui, infatti, la maldicenza ci fa sperperare questo tesoro. Con l’amaro retrogusto della consapevolezza che contro la maldicenza non c’è scudo che basti. La sua carica virale difficilmente può essere neutralizzata.
Ne erano convinti, da versanti diversi, l’autore de Il Pastore di Erma (testo paleocristiano dell’inizio del II secolo) e Seneca (I sec.), filosofo, drammaturgo e politico romano. Questi raccomanda di non prestare «orecchio ai maldicenti; è un vizio della natura umana credere volentieri a ciò che si ascolta malvolentieri» (De ira). Gli fa eco Erma: «Non sparlare di nessuno né ascoltare con piacere il maldicente […]. Perniciosa è la maldicenza; è un demone inquieto che non ha mai pace» (Secondo precetto, II, 27).

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